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Alla
scuola di Ario e di Erasmo E'
un "omo piccolo, scarmo, con un poco di barba nera, de circa 40 anni".
Così viene presentato Bruno da Giovan Battista Ciotti e da George Abbot che nel
suo libro lo definisce un omiciattolo "dal nome certamente più lungo del
suo corpo". In realtà, a differenza di Campanella, non abbiamo ritratti
autentici di Bruno, ma solo una lunga tradizione iconografica che ce lo presenta
con il volto corrucciato quasi consapevole del destino che lo attendeva;
tuttavia esso era anche un uomo dal carattere dispostissimo a godere delle gioie
del mondo con una vena più comica che tragica, come lui stesso dice nei Furori. Nato
a Nola vi restò sempre legato, cosi come rimase molto attaccato anche a Napoli,
città dove si era spostato per studiare "littere de umanità, logica e
dialettica" fino all'età di 14 anni. Di tali discipline apprese
soprattutto da due maestri: Il Sarnese, uomo che gli trasmise il suo
orientamento antifilologico e antiumanistico, ed il padre agostiniano fra
Teofilo da Vairano. Significativo è il fatto che tale figura ritorni
costantemente nelle opere di Bruno fino a diventare il sostenitore delle tesi
del Nolano nei dialoghi cosmologici; questo significa che probabilmente il frate
aveva trattato degli argomenti che impressionarono a lungo Bruno,
trasmettendogli anche il suo orientamento platonico ed avviandolo alla
"lezione fondamentale" della nova filosofia, ovvero il neoplatonismo.
Ulteriore componente della sua formazione sarà poi anche la lettura di Agostino
che toccò un punto fondamentale per il Nolano: Il dogma della Trinità. Fin da
giovanissimo si accostò all'ars memoriae, la quale nella filosofia di Bruno
costituisce un aspetto fondamentale del rapporto idee-realtà. "A 15 anni
circa entrai a far parte dei
Domenicani prendendo l'abito dal padre Ambrosio Pasqua". In realtà Bruno
entrò nel convento di San Domenico Maggiore prendendo il nome di Giordano,
lasciando quello di Filippo, a 17 anni e mezzo. Tale decisione non si può
spiegare con una vocazione tardiva, va vista bensì come una strada intrapresa
per poter continuare gli studi pur restando al di fuori di problematiche
teologiche, anche se è certo che Bruno, nel momento in cui entrò in convento,
era già disante dall'ortodossia Cristiana. Su questo aspetto è importante la
lettura non ufficiale che esso fa del testo di Erasmo che lo porta, attraverso
un lungo cammino interiore, dal Cristocentrismo all'eresia antitrinitaria di
Ario. E furono proprio legati a tali convinzioni i due processi che lo portarono
alla fuga da Napoli a Roma e poi dall'Italia. Il primo gli fu intentato nel 1565
poiché esso aveva esortato un novizio ad abbandonare la lettura della
"Istoria delle Sette Alegrezze della Madonna" e di leggere piuttosto
la "Vita de Santi Padri". Tale episodio getta luce sulla religiosità
di Bruno che è profondamente imperniata del primato di Cristo,dello studio dei
padri, secondo un modello erasmiano e del
rigetto di Maria. Il secondo, e ben più grave, processo invece gli fu mosso nel
1576 per i dubbi intorno al dogma della Trinità che lasciò trasparire
discorrendo con i confratelli riguardo alla distinzione tra Padre, Figlio, e
Spirito Santo. Tali accuse portarono al Nolano una fama di antiortodossia che si
sarebbe difficilmente disgregata e lo avrebbe poi portato alla fuga. Sebbene
avviato agli studi formali di teologia tra cui anche i testi di Tommaso, Alberto
Magno, Aristotele e S. Girolamo, esso preferisce, e fa sua, la lezione erasmiana
vietata esplicitamente dall'ordine, che risolve il problema del Cristocentrismo
e dell'antitrinitarismo, sottolineato soprattutto nello spaccio con
l'identificazione di Cristo nel centauro Chirone, che filosoficamente è
accettabile in quanto non può e non potrà mai esistere un rapporto fra uomo e
Dio, fra ente e accidente, fra finito e infinito, fra sostanza divina e sostanza
umana, come non vi è proporzione tra l'anima e il corpo. Ma
Napoli non fu importante per Bruno solo dal punto di vista della formazione
intellettuale, ma anche per il contatto con il mondo ecclesiastico che gli fa
conoscere da vicino la decadenza dei suoi confratelli, criticati esplicitamente
nella Cabala, i quali non sono visti più da lui come "Dij in terra"
ma come asini e ignoranti cui spetta il governo della chiesa. Da ciò non può
scaturire altro che un giudizio negativo sul proprio tempo storico visto come
momento di crisi radicale dovuta
all'ignoranza della Chiesa di cui il dogma trinitario è una manifestazione
esplicita. Deve essere dunque prossimo il tempo della Renovatio universale di
cui il "novello Mercurio" si fa portavoce per riportare alla virtù,
alla giustizia e alla carità, valori totalmente persi nella nostra società
come in quella descritta da Bruno nel Candelaio. Questo sentimento di decadenza,
però, non deriva come in Machiavelli da un analisi politica e sociale, bensì
da una visione cruda della realtà descritta da un esasperato realismo
estremamente autobiografico, poiché in Bruno biografia ed esperienza filosofica
si fondono unitariamente. Tra
"ombre delle idee" e decadenza universale Da
Napoli si recò a Roma da cui fu costretto ad allontanarsi poiché gli fu
rivolta la falsa accusa di aver gettato uno dei suoi accusatori nel Tevere. La
partenza da tale città segnò per Bruno l'inizio di una serie di peregrinazioni
italiane che lo portarono da Noli a Torino, da Venezia a Padova, da Brescia a
Bergamo, da Milano a Torino, infine attraverso Chambery a Ginevra, dove arrivò
nel 1578. Nella città di Calvino Bruno si sistemò trovando il lavoro di
correttore di bozze che gli risultò utile per poter controllare in tipografia
le sue opere fino all'ultimo. Tuttavia l'esperienza ginevrina fu per il Nolano
assai negativa per il giudizio che maturò sui Calvinisti, da cui fu scacciato
per vari motivi. Innanzitutto perché aveva compilato un elenco di venti errori
contenuti in una lezione di filosofia tenuta da Anthoyne de la Faye, titolare
della cattedra di filosofia, e poi perché aveva addirittura definito i ministri
della Chiesa Calvinista "pedagogues". Senz'altro la prima di queste
azioni fu mossa da Bruno con uno scopo specifico, infatti esso mirava a sminuire
il titolare della cattedra di filosofia, probabilmente per ottenere il suo
posto. L'insegnamento fu infatti da sempre la vocazione di Bruno, che lo vedeva
come un modo di tramandare un sapere iniziatico di cui si doveva fare
pubblicamente banditore. Dal punto di vista religioso invece il nolano
considerava i Calvinisti dei pedanti che sottolineavano particolari
insignificanti della religione per tralasciare valori fondamentali. Ed è per
questo che Bruno decise di abbandonare tutto con il minor danno possibile. Da
Ginevra dunque il Nolano andò in Francia come ospite del re Enrico III di
Valois, a cui dedica il De umbris, elogiandolo anche nelle pagine finali
dello Spaccio, per restarvi
poco meno di due anni. In tale periodo vengono pubblicati anche il Cantus
Circaeus ed il Candelaio, opere in cui si mette a fuoco, e
specialmente nella prima, il motivo della decadenza universale che viene
spiegato filosoficamente. Il Cantus tuttavia poteva presentarsi agli occhi del
lettore un testo ambiguo soprattutto nel suo rapporto con la Chiesa. Proprio da
qui Mocenigo fece notare agli inquisitori la raffigurazione del Pontefice nelle
vesti di un porco. E' probabile però che tale accusa gli fu mossa da Mocenigo
che, accecato dal risentimento, volle vendicarsi, oppure è effettivamente vero
che Bruno avesse accennato qualcosa in proposito a casa del patrizio veneto per
spaventarlo. Il de umbris, è invece, come lo definisce lo stesso
Bruno, un libro di memoria in cui la mnemotecnica tende a fondersi con principi
metafisici, ontologici, e gneoseologici, riportando anche temi ermetici come
quello dei Mercuri e del
riconoscimento di una pluralità di vie e di lessici che portano tutti alla
verità. Al di la del carattere filosofico l'opera è importante anche per il
tema dell'umbratilità che è vista come carattere strutturale della conoscenza
umana: l'uomo infatti non può conoscere il vero per l'immensa sproporzione che
c'è tra finito e infinito, tra uomo e Dio, e per questo si deve accontentare di
"sedere all'ombra del vero" ricercando il riflesso di Dio nella natura
umana. Quello
dell'ombra è sempre stato una grande tema della filosofia da quella antica a
quella cristiana e rinascimentale, così come lo è stato anche della pittura,
ambito in cui l'artista più notevole, e avvicinabile al pensiero di Bruno, è
stato senza dubbio Caravaggio che, in seguito ai suoi esperimenti sulla luce
riuscì a rappresentare una realtà circondata da ombre in cui si annulla la
distinzione tra la natura superiore e quella inferiore, dissolvendo così le
radici dell'antropocentrismo che sono state alla base dell'Umanesimo. Lo stesso
pensiero viene adottato dal Nolano che vede la realtà come una ammasso di ombre
generate da un unico principio che le vincoli in un modo di essere che le
contraddistingue. L'uomo e la pietra sono allo stesso tempo un'unica cosa poiché
sono generate da un unico principio e hanno entrambe una e una sola sorte. Per
questo non esiste un primato dell'uomo in quanto tale, poiché è accomunato a
tutte quante le cose terrene e umbratili che non potranno mai misurarsi con la
luce assoluta ed è per questo che il filosofo deve concentrarsi a lavorare
unicamente sull'ombra come fa il pittore. Nel de umbris è dunque messa a
fuoco la metafisica dell'ombra; nel Cantus, invece risalta la
problematica morale congiunta ad una riflessione sulla crisi del mondo, un mondo
in cui è presente una asimmetria fra essere e apparire, fra anima e corpo che
porta ad associare ad un anima bestiale il corpo di un uomo. Nell'opera dunque
viene operata una vera e propria riforma che trasforma in bestia chi ha un'anima
bestiale e non influisce sull'uomo la cui anima è veramente degna di tale
corpo. In conclusione la fisiognomica realizza il suo trionfo svelando la
personalità di ciascuno. Che nel Cantus, a differenza dello Spaccio,
Bruno abbia identificato le cause della crisi con i riformati è piuttosto
improbabile, mentre è piuttosto probabile che abbia attribuito tale ruolo ai
cristiani che continuavano a insanguinare la Francia con guerre di religione.
Sul problema tra apparenza e realtà il Cantus può essere assimilato al Candelaio,
commedia in cui i personaggi si muovono al di sotto di un cielo livido in uno
spazio in cui si è rotta ogni corrispondenza fra ciò che si è e ciò che si
vorrebbe essere, tra ciò che si ha e ciò che si vorrebbe avere. Questo
desiderio riporta l'uomo ad un istinto di sopravvivenza, di truffa e di inganno.
Da questo punto di vista chi ottiene ciò che vuole è Gio, mentre gli altri
subiscono beffe atroci dalla foruna traditrice che fa onorato chi non merita e
"da buon campo a chi nol semina". Quelli che hanno capito ciò
trionfano, mentre gli altri sono puniti e sopraffatti. In una realtà così
tetra tuttavia traspare un principio di giustizia: la vicissitudine che si svela
come il perno della giustizia universale, portando tutti i destini all' "euguagliamento".
E' dunque proprio la vicissitudine il principio sia del bene sia del male che si
configura come esplicazione inesauribile dell'ombra dell'universo che uguaglia i
destini. I
dialoghi londinesi Riguardo
al periodo Londinese Bruno fu molto asciutto nei confronti degli inquisitori e
chiarì subito che non era mai andato a Messa in Inghilterra sapendo di esser
stato scomunicato. Tale periodo fu dal punto di vista umano estremamente
negativo, tuttavia fu proprio in questo momento che dal punto di vista
filosofico la produzione del Nolano fu più intensa: proprio a Londra presero
vita capolavori come La Cena, il De la causa, il De infinito, lo
Spaccio, la Cabala, i Furori. Sembra proprio che più che era infelice la
vita del Nolano, più era fertile la produzione intellettuale: A Londra Bruno
visse infatti, ad eccezione di poche amicizie per cercare di ottenere una
cattedra, in una profonda solitudine che accentuava gli aspetti negativi del suo
carattere. Tale periodo è importante inoltre poiché riuscì a pubblicare i
dialoghi italiani nell'officina tipografica di John Charlewood. Ciò denota
l'interesse del pubblico inglese nei confronti della cultura italiana che
tuttavia in Bruno era contaminata da una "cattiva" religione. Per
questo fu cacciato da Oxford, dove teneva lezioni, con l'accusa di plagio dei
testi ficiniani. Sapendo dunque Bruno che il campo principale su cui si giocava
la partita decisiva era il rapporto religione-filosofia cercò di elaborare
nella Cena un motivo che conciliasse la prospettiva religiosa, cui spetta il
mantenimento del convitto umano, con quella filosofica, cui invece spetta il
compito di scoprire le verità. Nella scrittura dunque non ci sono affermazioni
significative dal punto di vista della verità che invece sono presenti nel
pensiero filosofico. Si tenta così di stabilire un rapporto mediante l'aiuto
che la filosofia nolana può apportare alla religione, favorendola. Essendo
state però mosse numerose calunnie contro di lui, Bruno non potè evitare
nuovamente il tema della pedanteria che aveva catturato tutti i campi del sapere
portandoli alla rovina, e che si era perfino impossessata dell'università, come
sperimenta sulla propria pelle. Ciò non può portare ad altro il filosofo, se
non all'identificazione Umanesimo-decadenza-pedanteria che si fondono in una
sola cosa. La decadenza è però per Bruno anche una spinta che accentua il suo
ruolo di novello Mercurio, di angelo della luce inviato dagli dei per
rischiarare l'umanità, dopo secoli di tenebre, e riportarla alla luce. Così
dopo aver illuminato il cielo scoprendo mondi infiniti, il Nolano, è chiamato a
illuminare gli uomini stringendo in un solo nodo legge e verità, religione e
filosofia.. In tutto questo naturalmente gioca un ruolo importante il sapere
ermetico che risuona con forte intensità; ed anche se il pubblico inglese era
ben disposto verso la cultura italiana sicuramente non transigeva sul ruolo da
attribuire alla religione. Altro punto di dibattito è l'unità del processo
conoscitivo poiché per Bruno, esistendo un unità fondamentale dal punto di
vista ontologico, dovrà per forza esisterne una anche dal punto di vista
gnoseologico, e come l'unità della Mente si esplica in una pluralità di gradi,
così l'unità del processo conoscitivo si esplica secondo una pluralità di
livelli. E' necessario dunque coglierne l'unità, essendo parte dell'intelletto,
poiché niente può essere
conosciuto se non è partecipe dell'intelletto. Ciò che a Bruno interessa
ribadire dunque è l'unità del processo conoscitivo, pur riconoscendo che esso
è composto di vari gradi, che bisogna osservare con i sensi, i quali sono più
che un grado di conoscenza della mente umana, sono proprio struttura della realtà,
come osserva nel Sigillus. Allo stesso tempo però la realtà è composta
da una materia divina che è fondamento sia del corporeo che dell'incorporeo.
Essa infatti è polo di comunicazione fra questi due opposti e ciò significa
che nelle cose inferiori anima e materia tendono a coincidere. La materia ha
inoltre il ruolo di vita-materia infinita quando caccia dal suo seno cose e
mondi infiniti che sono penetrati da Dio come essi penetrano in Dio. Dunque si
giunge ad una definizione che vede la materia come un essere divino nelle cose.
Di qui germinano la concezione dell'universo infinito e della natura come realtà
viva ed animata che attribuisce un ruolo all'uomo nelle sue capacità
conoscitive. Inoltre il concetto di vita-materia infinita da cui sorgono mondi
innumerabili e forme innumerabili cancella il motivo della creazione e quello
della morte, che diventano solo momenti di aggregazione o disgregazione di una
sostanza atomica che si produce incessantemente. Si viene così a determinare
una realtà caratterizzata dal mutamento vicissitudinale che struttura ogni
ente, poiché se essa si arrestasse tutto si disgregherebbe. I pianeti, gli
uomini e le stelle adesso non si differenziano più in quanto parlano tutti il
linguaggio della vita-materia infinita. Sapiente, dice Bruno, è colui che si
rende conto di questa continua mutazione e non teme gli eventi poiché sono
continue fasi di una trasformazione; non bisogna dunque sgomentarsi nei giorni
delle disgrazie e gonfiarsi nei giorni dei successi, ma accettare gli eventi
nella beatitudine. Altro
tratto fondamentale della musa nolana è la cosmologia che nasce tutta da
un'unica concezione: il rapporto tra finito e infinito. L'universo infatti,
conosciuto attraverso il senso e poi razionalizzato grazie all'intelletto cui
spetta giudicare le cose annunciate dai sensi, non è altro che l'esplicazione
di Dio e come tale mantiene i suoi princìpi, dunque dare all'universo dei
limiti e dividere la sfera celeste da quella terrestre non è altro che dare dei
limiti a Dio e contraddire la sua onnipotenza. Da tutto ciò nasce la concezione
astrologica del Nolano che portò l'uomo a scoprire un infinità di mondi e di
forme. E'
da sottolineare, in Bruno, inoltre, un tema del tutto originale che riguarda il
rapporto mani-intelletto. Precedentemente infatti si era insistito sostenendo
che il centro della "dignitas hominis" fosse l'intelletto; il Nolano
invece sostiene che preliminariamente a questo siano le mani: esse infatti
permettono di trasformare la potenza in atto, venendo così ad assumere un ruolo
importante nel rapporto tra intelletto e azione, inoltre, se la dignità
dell'uomo risiedesse nel suo intelletto esso non sarebbe superiore alle bestie,
in quanto talvolta vi sono animali assai più intelligenti dell'uomo. Dal punto
di vista ontologico allora il primato dell'uomo sulle bestie non sta dunque
nell'intelligenza, bensì nella forma corporea, che può essere identificata con
la mano. Il tema della mano, nella filosofia del nolano è collegato ad un altro
grande tema, quello del rapporto che deve avere l'uomo con la realtà
circostante, ovvero la praxis che lo fa interagire con il proprio tempo. Da
questo punto di vista Bruno fa un'aspra critica all'ozio e dunque si oppone ad
un valore fondamentale della latinità. Colui che non agisce, infatti, non è né
vizioso, né virtuoso e non si distingue più dalle bestie poiché non adopera
le mani. Insomma sia nell'età
dell'oro che nel Paradiso terrestre dei cristiani manca ogni principio di
moralità poiché l'uomo arriva a non essere più tale dissolvendo ogni
disuguaglianza tra umanità e bestialità. Al
concetto di ozio però è necessariamente connesso un concetto di virtù che per
Bruno si identifica con lo sforzo che ciascuno fa per uscire dalla bestialità,
ovvero consiste nell'imparare a distinguere il bene e il male e a scegliere una
via. E' dunque necessaria per la virtù una scelta e un'azione, cosa che i
latini e i cristiani ignoravano; infatti non può esserci nessuna virtù dove
non c'è la mano o dove essa sia sostituita dall'orecchio o dall'ignoranza. Per
comprendere meglio gran parte della produzione di Bruno è necessario inoltre
cogliere quella prospettiva antiriformata e in generale anticristiana che
caratterizza testi di importanza capitale quali lo Spaccio e la Cabala.
La prospettiva religiosa del Nolano infatti è assai diversa dal cristianesimo
che vede come decadenza, cui contrappone una rinascita dovuta alla riscoperta di
una nuova religione in cui si intreccino il sapere civile dei Romani e quello
naturale degli Egizi, di cui lui stesso si fa messaggero. Tale credenza
ripristinerà il vincolo dell'uomo con l'uomo, dell'uomo con la natura e,
attraverso la magia, dell'uomo con la divinità, unificando tutto il mondo sotto
un'unica grande fede che il cristianesimo aveva frazionato. Parte da qui la
convinzione del suo ruolo di Mercurio basato sulla praxis che è anche, a sua
volta, al fondo dell'esperienza del furioso. Negli Eroici furori Bruno,
infatti, delinea due figure che rappresentano due gradi di conoscenza della
verità: quella del sapiente e quella del furioso. Sapiente è colui che si
risolve nella mutazione vicissitudinale e in base a questa imposta la sua vita
situandosi nell'indifferenza e nella consapevolezza dell'esistenza sia del bene
sia del male. Identifica così la sapienza con la contemplazione della
vicissitudine che struttura ogni realtà. Il furioso invece è colui che oltre
ad aver raggiunto la stabilità del sapiente è colui che viene catturato dal
vincolo di Amore il quale, sommato alla volontà, gli dischiude la
contemplazione del "sole intelligenziale"; ma la differenza vera e
propria sta nel rapporto dei due con il mondo metafisico, cioè il mondo della
contrarietà. Il furioso, infatti, si rende conto che "gli contrarii"
sono "efficienti prossimi di ogni camgiamento". E' dunque questa
l'origine della vita-materia infinita che sgorga inesauribilmente
dalla coincidenza degli opposti; senza la contrarietà dunque non
potrebbe sorgere la materia e non vi sarebbe la vicessitudine, dunque non
esisterebbe il mondo: è proprio il contrario che, risiedendo in Dio, da origine
al tutto. Proprio questa è la differenza tra il sapiente, che si limita a
contemplare la mutazione e il furioso che andando al di là della moltitudine
dell'universo vede l'unità, la monade, la fonte di tutti i numeri. Tuttavia il
furioso non può cancellare lo scarto irriducibile fra finito e infinito e
dunque deve limitarsi ad osservare dall'ombra l'unità dell'universo, che per
l'ontologia bruniana è il massimo che si possa ottenere ed è un dono datoci
dalla divinità. La
divinità di cui stiamo parlando oltre ad avere un aspetto transcendente ne ha
anche uno immanente infatti, per Bruno, lo spirito si trova in tutte le cose,
non vi è un minimo corpuscolo che non possieda anche una piccola porzione. Sta
proprio nell'aver capito ciò il merito dell'antico sapere egizio
poiché come il Nolano aveva capito che
la natura "est deus in rebus", così gli Egizi avevano inteso
di adorare gli animali perché vedevano in loro una parte divina e riuscivano a
stabilire tramite essi un contatto tra la natura e la divinità; ed è per
questo che l'Egitto è stata la giovinezza dell'umanità, a differenza della
cristianità che invece ne rappresenta la vecchiaia, avendo sostenuto che"
ciò che secondo ragione pare eccellente in realtà è scellerato ed
empio". Bisogna quindi ricostruire la comunicazione interrotta tra Dio,
uomini e natura; ma per far ciò occorre restaurare l'antico linguaggio che i
sapienti Egizi avevano a disposizione per determinare le singole cose con
immagini desunte dalla natura stessa. Magia,
lingua e linguaggi," libertas philosophandi" Bruno,
nel suo racconto agli inquisitori, tratteggiò con colori indefiniti gli episodi
in cui era stato coinvolto prima a
Parigi e poi in Germania. Nella capitale francese ebbe un aspra polemica con
Fabrizio Mordente, un "geometra" salernitano di cui Bruno aveva
diffuso le tesi, che si sentì offeso dal tono ambiguo con cui Bruno lo lodava,
senza contare la polemica che aveva avuto con gli esponenti del partito
aristotelico. Tutte queste divergenze costrinsero il Nolano a trasferirsi in
Germania, prima a Magonza, poi a Wiesbaden e a Marburgo dove venne immatricolato
come professore di Teologia, ma si dimise quasi subito essendogli stato impedito
di fare pubblicamente lezione. Fu a Writtemberg che Bruno trovò finalmente un
po' di pace, insegnando all'Università per ben due anni, e ciò ci è
testimoniato dall'Oratio valedictoria con cui prende congedo
dall'università e dalle parole di elogio che rivolge ai colleghi professori che
si erano dimostrati sapienti nell'ascoltare dottrine che prima avevano suscitato
scalpore, mantenendogli rispetto in nome della libertà filosofica. Purtroppo
Bruno fu costretto ad allontanarsi da Writtemberg essendo mutata sia la gestione
dell'università che il controllo della città, il quale fu attribuito
"alla parte contraria a quelli che favorivano me", cioè ai
calvinisti. Per questo il filosofo fu costretto a migrare a Praga dove stette
sei mesi e pubblicò un opera Articuli contra mathematicos in cui svolge
una concezione qualitativa della realtà e in cui fa una professione di fede,
concernendo una dottrina semplificata al massimo nel suo apparato dogmatico che
deve rifarsi ai principi evangelici essenziali, divenendo così un punto di
unione civile e non di separazione, secondo l'unica legge dell'amore. Dopo
la parentesi di Writtemberg nell'autunno del
1588 dopo una breve sosta a Tubinga si fermò a Helmstedt, dove venne
scomunicato dal sovrintendente della chiesa luterana per questioni private, dice
il Nolano. Qui cominciò a scrivere, oltre ai tre poemi latini, le sue opere
magiche ( De magia, Theses de magia, De rerum principiis etc.) in cui la
riflessione magica è strettamente legata a quella politica. Infatti è proprio
attraverso il vincolo magico che Bruno vuole farsi autore di una nuova setta,
come esplicita nel De Vinculis. Degne di nota sono anche le oper latine
come il De monade in cui viene svolta un ampia riflessione sull'Uno
secondo la tradizione cabalistica e pitagorizzante, o anche il De immenso
dove si intrecciano temi etici, religiosi e filosofici sulla base della
cosmologia bruniana, espressa da protagonisti come Copernico e Palingenio (cui
spetta il merito di aver respinto la finitezza dell'universo). Terza ed ultima
opera latina è il De minimo nel quale viene espresso un pensiero sul
minimo metafisico (monade), fisico (atomo) e geometrico (punto). La base di ogni
ente viene identificata in tale poema con l'atomo parte indivisibile e
incorruttibile di una realtà che non può essere divisa all'infinito come dice
Aristotele, poiché altrimenti sarebbe infinita e in contrasto con il carattere
di finitezza che gli attribuiscono i nostri sensi. Ma il De minimo è
importante anche per la sua riflessione linguistica che intravede la necessità
di un linguaggio nuovo e infinito che riesca a riprodurre originalmente la realtà
senza esaurirla, per questo il nuovo linguaggio di Bruno si contrappone
all'alfabeto universale dei pedanti che pensano di esaurire una realtà in
continuo movimento con un linguaggio immutabile. Il
ritorno in Italia: dal processo al rogo Dopo
il soggiorno a Francoforte durato circa sei mesi, e il periodo trascorso a
Zurigo dove aveva tenuto una serie di lezioni Bruno si spostò in Italia. Ancora
oggi ci si chiede il perché di questa scelta. Di una cosa però bisogna tener
conto e cioè del fatto che quando tornò in Italia Bruno era tutt'altro che un
uomo vinto dalla fortuna, anzi riteneva che i tempi della povertà fossero
finiti. Dunque a tutto pensava, fuorchè all'Italia come un porto dove
trascorrere gli ultimi anni della sua vita. C'è da dire inoltre che gli
sviluppi della guerra di religione in Francia e l'affermarsi nella Repubblica
Veneziana di un nuovo gruppo dirigente in contrasto con la corte pontificia ne
favorirono il ritorno. L'ipotesi più attendibile, però pare che sia la
speranza che Bruno avesse di ottenere la cattedra all'università di Padova,
lasciata vuota da ormai tre anni. Ciò è dimostrato dal fatto che il Nolano
risiedette per ben tre mesi a Padova, dopo essersi soffermato solo pochi giorni
a Venezia. La speranza, però, ben presto svanì costringendolo a presentarsi a
casa di Mocenigo, il quale, denunciandolo all'Inquisizione il 23 maggio 1592
dette vita a una vicenda che si sarebbe poi conclusa dopo otto anni, nel 1600,
in Campo de' Fiori. Il
processo fu assai lungo e tortuoso, infatti numerose furono le accuse rivolte a
Bruno, alcune delle quali smentì, altre, invece, confermò. Un punto fu però
ben saldo nella difesa di Bruno e cioè che lui, nonostante le accuse di aver
opinioni erronee sulla fede, sul Cristo, sulla Trinità, sulla
transuatanziazione, sulla messa e di sostenere l'esistenza di mondi infiniti,
continuava ad affermare il carattere puramente filosofico della sua ricerca.
Nonostante ciò il 12 gennaio 1599 Roberto Bellarmino sottopose Bruno ad otto
proposizioni eretiche invitandolo ad abiurare. Ma Bruno chiese un termine di
quaranta giorni e così cercò di allontanare quella triste sorte che lo
attendeva rimandando più volte l'abiurazione. Quando però il Sant'Uffizio
venne a conoscenza dello Spaccio per Bruno si ripresentarono le accuse più
pesanti incentrate tutte sul dogma trinitario. Arrivato davanti ad una scelta il
Nolano si rese conto che la partita sarebbe stata comunque persa, anche se
avesse avuto la vita salva; per cui sentendo di non poter sommergere la verità
di cui era portavoce capì che l'unica strada che si poteva prospettare ad un
Mercurio portavoce degli dei era quella della morte che avrebbe dato ancor più
vigore alla sua predicazione. Per questo il 17 febbraio del 1600 fu bruciato
vivo dagli Inquisitori in piena consapevolezza. Massimo
Marconcini classe II sezione C Liceo “Machiavelli-Capponi” |