Introduzione a Bruno

Alla scuola di Ario e di Erasmo

E' un "omo piccolo, scarmo, con un poco di barba nera, de circa 40 anni". Così viene presentato Bruno da Giovan Battista Ciotti e da George Abbot che nel suo libro lo definisce un omiciattolo "dal nome certamente più lungo del suo corpo". In realtà, a differenza di Campanella, non abbiamo ritratti autentici di Bruno, ma solo una lunga tradizione iconografica che ce lo presenta con il volto corrucciato quasi consapevole del destino che lo attendeva; tuttavia esso era anche un uomo dal carattere dispostissimo a godere delle gioie del mondo con una vena più comica che tragica, come lui stesso dice nei Furori.

Nato a Nola vi restò sempre legato, cosi come rimase molto attaccato anche a Napoli, città dove si era spostato per studiare "littere de umanità, logica e dialettica" fino all'età di 14 anni. Di tali discipline apprese soprattutto da due maestri: Il Sarnese, uomo che gli trasmise il suo orientamento antifilologico e antiumanistico, ed il padre agostiniano fra Teofilo da Vairano. Significativo è il fatto che tale figura ritorni costantemente nelle opere di Bruno fino a diventare il sostenitore delle tesi del Nolano nei dialoghi cosmologici; questo significa che probabilmente il frate aveva trattato degli argomenti che impressionarono a lungo Bruno, trasmettendogli anche il suo orientamento platonico ed avviandolo alla "lezione fondamentale" della nova filosofia, ovvero il neoplatonismo. Ulteriore componente della sua formazione sarà poi anche la lettura di Agostino che toccò un punto fondamentale per il Nolano: Il dogma della Trinità. Fin da giovanissimo si accostò all'ars memoriae, la quale nella filosofia di Bruno costituisce un aspetto fondamentale del rapporto idee-realtà. "A 15 anni circa entrai  a far parte dei Domenicani prendendo l'abito dal padre Ambrosio Pasqua". In realtà Bruno entrò nel convento di San Domenico Maggiore prendendo il nome di Giordano, lasciando quello di Filippo, a 17 anni e mezzo. Tale decisione non si può spiegare con una vocazione tardiva, va vista bensì come una strada intrapresa per poter continuare gli studi pur restando al di fuori di problematiche teologiche, anche se è certo che Bruno, nel momento in cui entrò in convento, era già disante dall'ortodossia Cristiana. Su questo aspetto è importante la lettura non ufficiale che esso fa del testo di Erasmo che lo porta, attraverso un lungo cammino interiore, dal Cristocentrismo all'eresia antitrinitaria di Ario. E furono proprio legati a tali convinzioni i due processi che lo portarono alla fuga da Napoli a Roma e poi dall'Italia. Il primo gli fu intentato nel 1565 poiché esso aveva esortato un novizio ad abbandonare la lettura della "Istoria delle Sette Alegrezze della Madonna" e di leggere piuttosto la "Vita de Santi Padri". Tale episodio getta luce sulla religiosità di Bruno che è profondamente imperniata del primato di Cristo,dello studio dei padri, secondo un modello erasmiano e  del rigetto di Maria. Il secondo, e ben più grave, processo invece gli fu mosso nel 1576 per i dubbi intorno al dogma della Trinità che lasciò trasparire discorrendo con i confratelli riguardo alla distinzione tra Padre, Figlio, e Spirito Santo. Tali accuse portarono al Nolano una fama di antiortodossia che si sarebbe difficilmente disgregata e lo avrebbe poi portato alla fuga. Sebbene avviato agli studi formali di teologia tra cui anche i testi di Tommaso, Alberto Magno, Aristotele e S. Girolamo, esso preferisce, e fa sua, la lezione erasmiana vietata esplicitamente dall'ordine, che risolve il problema del Cristocentrismo e dell'antitrinitarismo, sottolineato soprattutto nello spaccio con l'identificazione di Cristo nel centauro Chirone, che filosoficamente è accettabile in quanto non può e non potrà mai esistere un rapporto fra uomo e Dio, fra ente e accidente, fra finito e infinito, fra sostanza divina e sostanza umana, come non vi è proporzione tra l'anima e il corpo.

Ma Napoli non fu importante per Bruno solo dal punto di vista della formazione intellettuale, ma anche per il contatto con il mondo ecclesiastico che gli fa conoscere da vicino la decadenza dei suoi confratelli, criticati esplicitamente nella Cabala, i quali non sono visti più da lui come "Dij in terra" ma come asini e ignoranti cui spetta il governo della chiesa. Da ciò non può scaturire altro che un giudizio negativo sul proprio tempo storico visto come momento di crisi radicale  dovuta all'ignoranza della Chiesa di cui il dogma trinitario è una manifestazione esplicita. Deve essere dunque prossimo il tempo della Renovatio universale di cui il "novello Mercurio" si fa portavoce per riportare alla virtù, alla giustizia e alla carità, valori totalmente persi nella nostra società come in quella descritta da Bruno nel Candelaio. Questo sentimento di decadenza, però, non deriva come in Machiavelli da un analisi politica e sociale, bensì da una visione cruda della realtà descritta da un esasperato realismo estremamente autobiografico, poiché in Bruno biografia ed esperienza filosofica si fondono unitariamente.

Tra "ombre delle idee" e decadenza universale

 Da Napoli si recò a Roma da cui fu costretto ad allontanarsi poiché gli fu rivolta la falsa accusa di aver gettato uno dei suoi accusatori nel Tevere. La partenza da tale città segnò per Bruno l'inizio di una serie di peregrinazioni italiane che lo portarono da Noli a Torino, da Venezia a Padova, da Brescia a Bergamo, da Milano a Torino, infine attraverso Chambery a Ginevra, dove arrivò nel 1578. Nella città di Calvino Bruno si sistemò trovando il lavoro di correttore di bozze che gli risultò utile per poter controllare in tipografia le sue opere fino all'ultimo. Tuttavia l'esperienza ginevrina fu per il Nolano assai negativa per il giudizio che maturò sui Calvinisti, da cui fu scacciato per vari motivi. Innanzitutto perché aveva compilato un elenco di venti errori contenuti in una lezione di filosofia tenuta da Anthoyne de la Faye, titolare della cattedra di filosofia, e poi perché aveva addirittura definito i ministri della Chiesa Calvinista "pedagogues". Senz'altro la prima di queste azioni fu mossa da Bruno con uno scopo specifico, infatti esso mirava a sminuire il titolare della cattedra di filosofia, probabilmente per ottenere il suo posto. L'insegnamento fu infatti da sempre la vocazione di Bruno, che lo vedeva come un modo di tramandare un sapere iniziatico di cui si doveva fare pubblicamente banditore. Dal punto di vista religioso invece il nolano considerava i Calvinisti dei pedanti che sottolineavano particolari insignificanti della religione per tralasciare valori fondamentali. Ed è per questo che Bruno decise di abbandonare tutto con il minor danno possibile.

Da Ginevra dunque il Nolano andò in Francia come ospite del re Enrico III di Valois, a cui dedica il De umbris, elogiandolo anche nelle pagine finali dello Spaccio,  per restarvi poco meno di due anni. In tale periodo vengono pubblicati anche il Cantus Circaeus ed il Candelaio, opere in cui si mette a fuoco, e specialmente nella prima, il motivo della decadenza universale che viene spiegato filosoficamente. Il Cantus tuttavia poteva presentarsi agli occhi del lettore un testo ambiguo soprattutto nel suo rapporto con la Chiesa. Proprio da qui Mocenigo fece notare agli inquisitori la raffigurazione del Pontefice nelle vesti di un porco. E' probabile però che tale accusa gli fu mossa da Mocenigo che, accecato dal risentimento, volle vendicarsi, oppure è effettivamente vero che Bruno avesse accennato qualcosa in proposito a casa del patrizio veneto per spaventarlo. Il de umbris, è invece, come lo definisce lo stesso Bruno, un libro di memoria in cui la mnemotecnica tende a fondersi con principi metafisici, ontologici, e gneoseologici, riportando anche temi ermetici come quello dei Mercuri  e del riconoscimento di una pluralità di vie e di lessici che portano tutti alla verità. Al di la del carattere filosofico l'opera è importante anche per il tema dell'umbratilità che è vista come carattere strutturale della conoscenza umana: l'uomo infatti non può conoscere il vero per l'immensa sproporzione che c'è tra finito e infinito, tra uomo e Dio, e per questo si deve accontentare di "sedere all'ombra del vero" ricercando il riflesso di Dio nella natura umana.

Quello dell'ombra è sempre stato una grande tema della filosofia da quella antica a quella cristiana e rinascimentale, così come lo è stato anche della pittura, ambito in cui l'artista più notevole, e avvicinabile al pensiero di Bruno, è stato senza dubbio Caravaggio che, in seguito ai suoi esperimenti sulla luce riuscì a rappresentare una realtà circondata da ombre in cui si annulla la distinzione tra la natura superiore e quella inferiore, dissolvendo così le radici dell'antropocentrismo che sono state alla base dell'Umanesimo. Lo stesso pensiero viene adottato dal Nolano che vede la realtà come una ammasso di ombre generate da un unico principio che le vincoli in un modo di essere che le contraddistingue. L'uomo e la pietra sono allo stesso tempo un'unica cosa poiché sono generate da un unico principio e hanno entrambe una e una sola sorte. Per questo non esiste un primato dell'uomo in quanto tale, poiché è accomunato a tutte quante le cose terrene e umbratili che non potranno mai misurarsi con la luce assoluta ed è per questo che il filosofo deve concentrarsi a lavorare unicamente sull'ombra come fa il pittore. Nel de umbris è dunque messa a fuoco la metafisica dell'ombra; nel Cantus, invece risalta la problematica morale congiunta ad una riflessione sulla crisi del mondo, un mondo in cui è presente una asimmetria fra essere e apparire, fra anima e corpo che porta ad associare ad un anima bestiale il corpo di un uomo. Nell'opera dunque viene operata una vera e propria riforma che trasforma in bestia chi ha un'anima bestiale e non influisce sull'uomo la cui anima è veramente degna di tale corpo. In conclusione la fisiognomica realizza il suo trionfo svelando la personalità di ciascuno. Che nel Cantus, a differenza dello Spaccio, Bruno abbia identificato le cause della crisi con i riformati è piuttosto improbabile, mentre è piuttosto probabile che abbia attribuito tale ruolo ai cristiani che continuavano a insanguinare la Francia con guerre di religione. Sul problema tra apparenza e realtà il Cantus può essere assimilato al Candelaio, commedia in cui i personaggi si muovono al di sotto di un cielo livido in uno spazio in cui si è rotta ogni corrispondenza fra ciò che si è e ciò che si vorrebbe essere, tra ciò che si ha e ciò che si vorrebbe avere. Questo desiderio riporta l'uomo ad un istinto di sopravvivenza, di truffa e di inganno. Da questo punto di vista chi ottiene ciò che vuole è Gio, mentre gli altri subiscono beffe atroci dalla foruna traditrice che fa onorato chi non merita e "da buon campo a chi nol semina". Quelli che hanno capito ciò trionfano, mentre gli altri sono puniti e sopraffatti. In una realtà così tetra tuttavia traspare un principio di giustizia: la vicissitudine che si svela come il perno della giustizia universale, portando tutti i destini all' "euguagliamento". E' dunque proprio la vicissitudine il principio sia del bene sia del male che si configura come esplicazione inesauribile dell'ombra dell'universo che uguaglia i destini.

I dialoghi londinesi

Riguardo al periodo Londinese Bruno fu molto asciutto nei confronti degli inquisitori e chiarì subito che non era mai andato a Messa in Inghilterra sapendo di esser stato scomunicato. Tale periodo fu dal punto di vista umano estremamente negativo, tuttavia fu proprio in questo momento che dal punto di vista filosofico la produzione del Nolano fu più intensa: proprio a Londra presero vita capolavori come La Cena, il De la causa, il De infinito, lo Spaccio, la Cabala, i Furori. Sembra proprio che più che era infelice la vita del Nolano, più era fertile la produzione intellettuale: A Londra Bruno visse infatti, ad eccezione di poche amicizie per cercare di ottenere una cattedra, in una profonda solitudine che accentuava gli aspetti negativi del suo carattere. Tale periodo è importante inoltre poiché riuscì a pubblicare i dialoghi italiani nell'officina tipografica di John Charlewood. Ciò denota l'interesse del pubblico inglese nei confronti della cultura italiana che tuttavia in Bruno era contaminata da una "cattiva" religione. Per questo fu cacciato da Oxford, dove teneva lezioni, con l'accusa di plagio dei testi ficiniani. Sapendo dunque Bruno che il campo principale su cui si giocava la partita decisiva era il rapporto religione-filosofia cercò di elaborare nella Cena un motivo che conciliasse la prospettiva religiosa, cui spetta il mantenimento del convitto umano, con quella filosofica, cui invece spetta il compito di scoprire le verità. Nella scrittura dunque non ci sono affermazioni significative dal punto di vista della verità che invece sono presenti nel pensiero filosofico. Si tenta così di stabilire un rapporto mediante l'aiuto che la filosofia nolana può apportare alla religione, favorendola. Essendo state però mosse numerose calunnie contro di lui, Bruno non potè evitare nuovamente il tema della pedanteria che aveva catturato tutti i campi del sapere portandoli alla rovina, e che si era perfino impossessata dell'università, come sperimenta sulla propria pelle. Ciò non può portare ad altro il filosofo, se non all'identificazione Umanesimo-decadenza-pedanteria che si fondono in una sola cosa. La decadenza è però per Bruno anche una spinta che accentua il suo ruolo di novello Mercurio, di angelo della luce inviato dagli dei per rischiarare l'umanità, dopo secoli di tenebre, e riportarla alla luce. Così dopo aver illuminato il cielo scoprendo mondi infiniti, il Nolano, è chiamato a illuminare gli uomini stringendo in un solo nodo legge e verità, religione e filosofia.. In tutto questo naturalmente gioca un ruolo importante il sapere ermetico che risuona con forte intensità; ed anche se il pubblico inglese era ben disposto verso la cultura italiana sicuramente non transigeva sul ruolo da attribuire alla religione. Altro punto di dibattito è l'unità del processo conoscitivo poiché per Bruno, esistendo un unità fondamentale dal punto di vista ontologico, dovrà per forza esisterne una anche dal punto di vista gnoseologico, e come l'unità della Mente si esplica in una pluralità di gradi, così l'unità del processo conoscitivo si esplica secondo una pluralità di livelli. E' necessario dunque coglierne l'unità, essendo parte dell'intelletto, poiché  niente può essere conosciuto se non è partecipe dell'intelletto. Ciò che a Bruno interessa ribadire dunque è l'unità del processo conoscitivo, pur riconoscendo che esso è composto di vari gradi, che bisogna osservare con i sensi, i quali sono più che un grado di conoscenza della mente umana, sono proprio struttura della realtà, come osserva nel Sigillus. Allo stesso tempo però la realtà è composta da una materia divina che è fondamento sia del corporeo che dell'incorporeo. Essa infatti è polo di comunicazione fra questi due opposti e ciò significa che nelle cose inferiori anima e materia tendono a coincidere. La materia ha inoltre il ruolo di vita-materia infinita quando caccia dal suo seno cose e mondi infiniti che sono penetrati da Dio come essi penetrano in Dio. Dunque si giunge ad una definizione che vede la materia come un essere divino nelle cose. Di qui germinano la concezione dell'universo infinito e della natura come realtà viva ed animata che attribuisce un ruolo all'uomo nelle sue capacità conoscitive. Inoltre il concetto di vita-materia infinita da cui sorgono mondi innumerabili e forme innumerabili cancella il motivo della creazione e quello della morte, che diventano solo momenti di aggregazione o disgregazione di una sostanza atomica che si produce incessantemente. Si viene così a determinare una realtà caratterizzata dal mutamento vicissitudinale che struttura ogni ente, poiché se essa si arrestasse tutto si disgregherebbe. I pianeti, gli uomini e le stelle adesso non si differenziano più in quanto parlano tutti il linguaggio della vita-materia infinita. Sapiente, dice Bruno, è colui che si rende conto di questa continua mutazione e non teme gli eventi poiché sono continue fasi di una trasformazione; non bisogna dunque sgomentarsi nei giorni delle disgrazie e gonfiarsi nei giorni dei successi, ma accettare gli eventi nella beatitudine.

Altro tratto fondamentale della musa nolana è la cosmologia che nasce tutta da un'unica concezione: il rapporto tra finito e infinito. L'universo infatti, conosciuto attraverso il senso e poi razionalizzato grazie all'intelletto cui spetta giudicare le cose annunciate dai sensi, non è altro che l'esplicazione di Dio e come tale mantiene i suoi princìpi, dunque dare all'universo dei limiti e dividere la sfera celeste da quella terrestre non è altro che dare dei limiti a Dio e contraddire la sua onnipotenza. Da tutto ciò nasce la concezione astrologica del Nolano che portò l'uomo a scoprire un infinità di mondi e di forme.

E' da sottolineare, in Bruno, inoltre, un tema del tutto originale che riguarda il rapporto mani-intelletto. Precedentemente infatti si era insistito sostenendo che il centro della "dignitas hominis" fosse l'intelletto; il Nolano invece sostiene che preliminariamente a questo siano le mani: esse infatti permettono di trasformare la potenza in atto, venendo così ad assumere un ruolo importante nel rapporto tra intelletto e azione, inoltre, se la dignità dell'uomo risiedesse nel suo intelletto esso non sarebbe superiore alle bestie, in quanto talvolta vi sono animali assai più intelligenti dell'uomo. Dal punto di vista ontologico allora il primato dell'uomo sulle bestie non sta dunque nell'intelligenza, bensì nella forma corporea, che può essere identificata con la mano. Il tema della mano, nella filosofia del nolano è collegato ad un altro grande tema, quello del rapporto che deve avere l'uomo con la realtà circostante, ovvero la praxis che lo fa interagire con il proprio tempo. Da questo punto di vista Bruno fa un'aspra critica all'ozio e dunque si oppone ad un valore fondamentale della latinità. Colui che non agisce, infatti, non è né vizioso, né virtuoso e non si distingue più dalle bestie poiché non adopera le mani. Insomma sia

nell'età dell'oro che nel Paradiso terrestre dei cristiani manca ogni principio di moralità poiché l'uomo arriva a non essere più tale dissolvendo ogni disuguaglianza tra umanità e bestialità.

Al concetto di ozio però è necessariamente connesso un concetto di virtù che per Bruno si identifica con lo sforzo che ciascuno fa per uscire dalla bestialità, ovvero consiste nell'imparare a distinguere il bene e il male e a scegliere una via. E' dunque necessaria per la virtù una scelta e un'azione, cosa che i latini e i cristiani ignoravano; infatti non può esserci nessuna virtù dove non c'è la mano o dove essa sia sostituita dall'orecchio o dall'ignoranza.

Per comprendere meglio gran parte della produzione di Bruno è necessario inoltre cogliere quella prospettiva antiriformata e in generale anticristiana che caratterizza testi di importanza capitale quali lo Spaccio e la Cabala. La prospettiva religiosa del Nolano infatti è assai diversa dal cristianesimo che vede come decadenza, cui contrappone una rinascita dovuta alla riscoperta di una nuova religione in cui si intreccino il sapere civile dei Romani e quello naturale degli Egizi, di cui lui stesso si fa messaggero. Tale credenza ripristinerà il vincolo dell'uomo con l'uomo, dell'uomo con la natura e, attraverso la magia, dell'uomo con la divinità, unificando tutto il mondo sotto un'unica grande fede che il cristianesimo aveva frazionato. Parte da qui la convinzione del suo ruolo di Mercurio basato sulla praxis che è anche, a sua volta, al fondo dell'esperienza del furioso. Negli Eroici furori Bruno, infatti, delinea due figure che rappresentano due gradi di conoscenza della verità: quella del sapiente e quella del furioso. Sapiente è colui che si risolve nella mutazione vicissitudinale e in base a questa imposta la sua vita situandosi nell'indifferenza e nella consapevolezza dell'esistenza sia del bene sia del male. Identifica così la sapienza con la contemplazione della vicissitudine che struttura ogni realtà. Il furioso invece è colui che oltre ad aver raggiunto la stabilità del sapiente è colui che viene catturato dal vincolo di Amore il quale, sommato alla volontà, gli dischiude la contemplazione del "sole intelligenziale"; ma la differenza vera e propria sta nel rapporto dei due con il mondo metafisico, cioè il mondo della contrarietà. Il furioso, infatti, si rende conto che "gli contrarii" sono "efficienti prossimi di ogni camgiamento". E' dunque questa l'origine della vita-materia infinita che sgorga inesauribilmente  dalla coincidenza degli opposti; senza la contrarietà dunque non potrebbe sorgere la materia e non vi sarebbe la vicessitudine, dunque non esisterebbe il mondo: è proprio il contrario che, risiedendo in Dio, da origine al tutto. Proprio questa è la differenza tra il sapiente, che si limita a contemplare la mutazione e il furioso che andando al di là della moltitudine dell'universo vede l'unità, la monade, la fonte di tutti i numeri. Tuttavia il furioso non può cancellare lo scarto irriducibile fra finito e infinito e dunque deve limitarsi ad osservare dall'ombra l'unità dell'universo, che per l'ontologia bruniana è il massimo che si possa ottenere ed è un dono datoci dalla divinità.

La divinità di cui stiamo parlando oltre ad avere un aspetto transcendente ne ha anche uno immanente infatti, per Bruno, lo spirito si trova in tutte le cose, non vi è un minimo corpuscolo che non possieda anche una piccola porzione. Sta proprio nell'aver capito ciò il merito dell'antico sapere egizio  poiché come il Nolano aveva capito che  la natura "est deus in rebus", così gli Egizi avevano inteso di adorare gli animali perché vedevano in loro una parte divina e riuscivano a stabilire tramite essi un contatto tra la natura e la divinità; ed è per questo che l'Egitto è stata la giovinezza dell'umanità, a differenza della cristianità che invece ne rappresenta la vecchiaia, avendo sostenuto che" ciò che secondo ragione pare eccellente in realtà è scellerato ed empio". Bisogna quindi ricostruire la comunicazione interrotta tra Dio, uomini e natura; ma per far ciò occorre restaurare l'antico linguaggio che i sapienti Egizi avevano a disposizione per determinare le singole cose con immagini desunte dalla natura stessa.

Magia, lingua e linguaggi," libertas philosophandi"

Bruno, nel suo racconto agli inquisitori, tratteggiò con colori indefiniti gli episodi in cui era stato coinvolto prima  a Parigi e poi in Germania. Nella capitale francese ebbe un aspra polemica con Fabrizio Mordente, un "geometra" salernitano di cui Bruno aveva diffuso le tesi, che si sentì offeso dal tono ambiguo con cui Bruno lo lodava, senza contare la polemica che aveva avuto con gli esponenti del partito aristotelico. Tutte queste divergenze costrinsero il Nolano a trasferirsi in Germania, prima a Magonza, poi a Wiesbaden e a Marburgo dove venne immatricolato come professore di Teologia, ma si dimise quasi subito essendogli stato impedito di fare pubblicamente lezione. Fu a Writtemberg che Bruno trovò finalmente un po' di pace, insegnando all'Università per ben due anni, e ciò ci è testimoniato dall'Oratio valedictoria con cui prende congedo dall'università e dalle parole di elogio che rivolge ai colleghi professori che si erano dimostrati sapienti nell'ascoltare dottrine che prima avevano suscitato scalpore, mantenendogli rispetto in nome della libertà filosofica. Purtroppo Bruno fu costretto ad allontanarsi da Writtemberg essendo mutata sia la gestione dell'università che il controllo della città, il quale fu attribuito "alla parte contraria a quelli che favorivano me", cioè ai calvinisti. Per questo il filosofo fu costretto a migrare a Praga dove stette sei mesi e pubblicò un opera Articuli contra mathematicos in cui svolge una concezione qualitativa della realtà e in cui fa una professione di fede, concernendo una dottrina semplificata al massimo nel suo apparato dogmatico che deve rifarsi ai principi evangelici essenziali, divenendo così un punto di unione civile e non di separazione, secondo l'unica legge dell'amore.

Dopo la parentesi di Writtemberg nell'autunno  del 1588 dopo una breve sosta a Tubinga si fermò a Helmstedt, dove venne scomunicato dal sovrintendente della chiesa luterana per questioni private, dice il Nolano. Qui cominciò a scrivere, oltre ai tre poemi latini, le sue opere magiche ( De magia, Theses de magia, De rerum principiis etc.) in cui la riflessione magica è strettamente legata a quella politica. Infatti è proprio attraverso il vincolo magico che Bruno vuole farsi autore di una nuova setta, come esplicita nel De Vinculis. Degne di nota sono anche le oper latine come il De monade in cui viene svolta un ampia riflessione sull'Uno secondo la tradizione cabalistica e pitagorizzante, o anche il De immenso dove si intrecciano temi etici, religiosi e filosofici sulla base della cosmologia bruniana, espressa da protagonisti come Copernico e Palingenio (cui spetta il merito di aver respinto la finitezza dell'universo). Terza ed ultima opera latina è il De minimo nel quale viene espresso un pensiero sul minimo metafisico (monade), fisico (atomo) e geometrico (punto). La base di ogni ente viene identificata in tale poema con l'atomo parte indivisibile e incorruttibile di una realtà che non può essere divisa all'infinito come dice Aristotele, poiché altrimenti sarebbe infinita e in contrasto con il carattere di finitezza che gli attribuiscono i nostri sensi. Ma il De minimo è importante anche per la sua riflessione linguistica che intravede la necessità di un linguaggio nuovo e infinito che riesca a riprodurre originalmente la realtà senza esaurirla, per questo il nuovo linguaggio di Bruno si contrappone all'alfabeto universale dei pedanti che pensano di esaurire una realtà in continuo movimento con un linguaggio immutabile.

Il ritorno in Italia: dal processo al rogo

Dopo il soggiorno a Francoforte durato circa sei mesi, e il periodo trascorso a Zurigo dove aveva tenuto una serie di lezioni Bruno si spostò in Italia. Ancora oggi ci si chiede il perché di questa scelta. Di una cosa però bisogna tener conto e cioè del fatto che quando tornò in Italia Bruno era tutt'altro che un uomo vinto dalla fortuna, anzi riteneva che i tempi della povertà fossero finiti. Dunque a tutto pensava, fuorchè all'Italia come un porto dove trascorrere gli ultimi anni della sua vita. C'è da dire inoltre che gli sviluppi della guerra di religione in Francia e l'affermarsi nella Repubblica Veneziana di un nuovo gruppo dirigente in contrasto con la corte pontificia ne favorirono il ritorno. L'ipotesi più attendibile, però pare che sia la speranza che Bruno avesse di ottenere la cattedra all'università di Padova, lasciata vuota da ormai tre anni. Ciò è dimostrato dal fatto che il Nolano risiedette per ben tre mesi a Padova, dopo essersi soffermato solo pochi giorni a Venezia. La speranza, però, ben presto svanì costringendolo a presentarsi a casa di Mocenigo, il quale, denunciandolo all'Inquisizione il 23 maggio 1592 dette vita a una vicenda che si sarebbe poi conclusa dopo otto anni, nel 1600, in Campo de' Fiori.

Il processo fu assai lungo e tortuoso, infatti numerose furono le accuse rivolte a Bruno, alcune delle quali smentì, altre, invece, confermò. Un punto fu però ben saldo nella difesa di Bruno e cioè che lui, nonostante le accuse di aver  opinioni erronee sulla fede, sul Cristo, sulla Trinità, sulla transuatanziazione, sulla messa e di sostenere l'esistenza di mondi infiniti, continuava ad affermare il carattere puramente filosofico della sua ricerca. Nonostante ciò il 12 gennaio 1599 Roberto Bellarmino sottopose Bruno ad otto proposizioni eretiche invitandolo ad abiurare. Ma Bruno chiese un termine di quaranta giorni e così cercò di allontanare quella triste sorte che lo attendeva rimandando più volte l'abiurazione. Quando però il Sant'Uffizio venne a conoscenza dello Spaccio per Bruno si ripresentarono le accuse più pesanti incentrate tutte sul dogma trinitario. Arrivato davanti ad una scelta il Nolano si rese conto che la partita sarebbe stata comunque persa, anche se avesse avuto la vita salva; per cui sentendo di non poter sommergere la verità di cui era portavoce capì che l'unica strada che si poteva prospettare ad un Mercurio portavoce degli dei era quella della morte che avrebbe dato ancor più vigore alla sua predicazione. Per questo il 17 febbraio del 1600 fu bruciato vivo dagli Inquisitori in piena consapevolezza.

 

Massimo Marconcini classe II sezione C Liceo “Machiavelli-Capponi”