Complicità fra soggetto e mondo all’interno di un sopravanzamento e sconfinamento fra il vedente e il visibile

 

La pipa di Magritte nasce dal presupposto di non poter essere una pipa e nello stesso tempo ha ragione di esserlo per il fatto di evocare l’oggetto reale cui si riferisce. La pipa dipinta non può essere fumata e per questo prende le sue distanze dall’”oggetto pipa”della realtà, ma la riflessione di Magritte si spinge oltre ed arriva a mettere in luce il fallimento della congiunzione del guardare e del leggere, affermando lo stato di autonomo isolamento in cui vivono scrittura e rappresentazione dove l’una nega all’altra qualsiasi  autenticità e autorità interpretative. ”Ceci n’est pas une pipe”, dipinto nel 1926,nasce da una concezione spoglia e disarmata del mistero, la cui esistenza si situa per Magritte  al centro del mondo, ne è l’essenza stessa.

Nelle opere di Magritte è presente un forte sperimentalismo soprattutto nel suo modo di fare interagire le cose della realtà, nel suo creare legami fra oggetti, mettendo in relazione elementi e creando composizioni che tendenzialmente non vediamo in ciò che ci circonda; lo stesso Magritte scrisse: ”Si possono creare nuovi rapporti tra le parole e gli oggetti, e precisare alcune caratteristiche del linguaggio e degli oggetti generalmente ignorate nella vita quotidiana”.

L’opera di Magritte ha come fondamento  la centralità dialettica dello sguardo, del vedere, e in sintesi della visione.

Se l’occhio degli impressionisti era teso alla percezione retinica del mondo attraverso la cangiante fenomenologia della luce, il simbolismo invece tendeva a identificare la verità del mondo con ciò che si trovava al di là del visibile.

Paul Cézanne aveva sottolineato la problematicità e la dialettica della visione, del come l’uomo guarda. “Braque, più di Picasso, liberava il costruirsi della forma e l’organicità strutturale dell’immagine dai vincoli e dalle similitudini con la realtà”. L’immagine cominciava ad esistere in assoluta autonomia rispetto alle cose del mondo e, sotto la spinta dell’interiorità, essa si scioglieva come libera  espressività di Kandiskij o nelle strutture aperte di Mirò.

Alla domanda posta da Cézanne sul “come si vede”, una probabile risposta che dà Magritte è racchiusa all’interno del suo dipinto ”La ragione d’essere” in cui un occhio è raffigurato nel tondo di una lente: l’occhio vede ed è a sua volta visto, l’artista stesso non guarda la realtà contingente ma la visione che si compone nel suo occhio. L’occhio non vede tutto, ma tutto fa centro nell’occhio, il quale ha una memoria, un desiderio, e una volontà, pensa a ciò che si nasconde dietro l’apparenza, e a ciò che si potrebbe vedere.

La realtà subentra spesso ai nostri occhi carica di non senso e la domanda, che sta alla base del mistero nell’opera di Magritte, è la seguente: ”è la realtà a essere carica di non-senso, oppure essa si dispiega in ordinata naturalità e sono invece i nostri apparati riceventi e conoscitivi a sconvolgerne la logica?”

Per Magritte, la realtà, la surrealtà, il senso e il non-senso coesistono e affondano le proprie radici nella struttura della visione.

Di fronte al bisogno surrealista di far subentrare il sogno alla realtà, di imporre il sogno sulla realtà quasi fossero in antitesi, Magritte “risponde” risolvendo il “conflitto” surrealista e ponendo l’intera realtà come sogno.

La realtà si concretizza nella visione e anche il problema di “Ceci  n’est pas une pipe” in cui la scritta si contrappone all’immagine dipinta, consiste ancora una volta nel processo di acquisizione della realtà attraverso lo sguardo.

Le funzioni delle cose, nella realtà, non possiedono né una certezza logica né una certezza di relazioni ed il loro non-senso si ritrova nel loro modo di disporsi nell’apparato percettivo, nell’organizzarsi della visione. Il non-senso si ha nel momento in cui ci si sforza a “vedere meglio” a “vedere di più”.

L’interesse su come l’occhio percepisce l’immagine, si trova anche nella riflessione sulla figura del pittore in Merleau Ponty; per il filosofo francese lo sguardo, in particolare lo sguardo del pittore, non oggettivizza il mondo, ma scioglie il mondo, “lo percepisce nella sua fase liquida e nascente, lo riporta allo stadio della sua in-formazione”, allo stesso modo in cui Cézanne ha cercato di cogliere la visione nella sua genesi all’interno di “La montagna Sainte-Victoire”; l’oggetto percepito diventa oggetto ri-formato dal soggetto e sempre Cézanne ha scritto di aver solo esplicitato  il mondo che gli appariva dipingendo cose e volti nel modo in cui essi richiedevano di voler esser dipinti.

Si può parlare dunque di congenesi della visione del pittore e del mondo da lui percepito, di quadro che nasce sotto le mani dell’artista e che “si insegna  da sé” dal momento che l’artista costruisce soltanto l’immagine, ed è questa poi ad “animarsi “ per gli altri.

Tutti dovremmo retrocedere alla visione del pittore liberandoci dalle lenti oggettivistiche, naturalistiche, e scientistiche, riuscendo a rilevare la genesi delle cose “senza ricorrere alla violenza reificante”.

Merleau Ponty concepisce il vedere come frutto di una reciproca visitazione di vedente e visibile allo stesso modo in cui concepisce  il rapporto con gli altri. Ciò che ci circonda, i “corpi  associati”, per usare le parole del filosofo, “mi frequentano” ed io stesso “li frequento” ed insieme ad essi “frequento un Essere attuale”.

L’intimità ontica  di cui parla Ponty consiste in questo ruolo che  ha la visione di portarci a “vivere con”, di coglierci in un mondo che ci appartiene e al quale apparteniamo: “Io non guardo (il quadro) come si guarda una cosa, non lo fisso nel suo luogo, il mio sguardo erra in esso come nei nimbi dell’Essere, vedo secondo o con il quadro”.

Dunque l’opera del pittore, non essendo il risultato di un’imitazione del reale ma di una partecipazione dell’artista al reale, alla sua genesi, è sempre un ricominciamento.

Cercare che cosa siano il mondo , la verità, e l’essere, è cercare la complicità che abbiamo con essi, ma prima di poter analizzare in che rapporto stiamo col mondo, occorre un’analisi di cosa sia il mondo. Merleau  Ponty, all’interno della sua opera “Il visibile e l’invisibile” fa un’analisi del mondo a partire dal rapporto che lega fatto ed essenza, oggetto ed essenza. Le essenze  sono definite da Ponty “senso intrinseco”, ”necessità di principio”, e si nascondono fino a confondersi nella realtà.

Se per Husserl  esiste un puro guardare , e quindi un soggetto trascendentale che può essere intuito da me che guardo come “spettatore imparziale” operando una riduzione fenomenologica, in Merleau Ponty solo la propria esperienza dischiude al mondo e all’Essere, i quali, non sono posti davanti a noi come fatti, ma siamo noi stessi ad animare e organizzare la loro fatticità.

L’esperienza , questa “ carne del tempo”, non può essere ridotta alla sua essenza ponendola per intero sotto il nostro sguardo perché per fare ciò dovremo distanziarci notevolmente da essa ;  l’esperienza invece ci consente di “penetrare sino al nucleo duro dell’Essere”, e pretendere di separare fatto ed essenza significa desiderare di cogliere la cosa completamente nuda quando invece è sempre vestita. Merleau Ponty dice  che l’uomo ha come il desiderio di spogliare l’esperienza della sua fatticità come fosse un’impurità, mentre invece l’essenza è situata proprio nel cuore di questo avvolgimento e non può essere vista fuori da esso.

Il visibile  dunque non ci è dato attraverso un puro guardare, ponendo distanze da esso, ma ci è dato eliminando tali distanze  e collocando noi stessi all’interno del visibile; io, il vedente, sono anche visibile e “ciò che costituisce il peso , lo spessore, la carne di ogni colore, di ogni suono, di ogni testura tattile del presente e del mondo” è proprio dell’uomo e delle cose, per cui l’uomo si sente emergere da essi grazie a una specie di avvolgimento.

Merleau Ponty definisce l’uomo “sensibile stesso veniente a se” proprio per sottolineare  che il sensibile è ai suoi occhi come il suo duplicato o come estensione della sua carne; “spazio e tempo delle cose sono lembi di lui stesso, della sua spazializzazione, della sua temporalizzazione”. Merleau  Ponty parla di questa polpa spaziale e temporale in cui gli individui si formano per differenziazione: “Le cose esistono solo in fondo a questi raggi di spazialità  e di temporalità, emessi nel segreto della mia carne , e la loro solidità è esperita da me dall’interno, in quanto sono io fra le cose  e in quanto esse  comunicano attraverso di me come cosa senziente”. Fatto ed Essenza non possono più essere distinti, in quanto l’Essere mi circonda, mi attraversa, e la mia visione dell’Essere si effettua dal cuore dell’Essere stesso. “Noi siamo perpetua pregnanza, perpetuo parto, esistenza grezza. Siamo interni alla vita, all’essere umano e all’Essere, nello stesso modo in cui egli lo è a noi”.

Le essenze, le idee, sono viste da Merleau Ponty come nervature di una foglia, nervature del mondo: “Come la nervatura sostiene la foglia dall’interno, dal fondo della sua carne, così le idee sono testura dell’esperienza: il suo stile dapprima muto, poi proferito. Al pari di ogni  stile, esse si elaborano nello spessore dell’essere e, non solo di fatto, ma di diritto, non potrebbero esserne distaccate per venire dispiegate sotto lo sguardo “.

Noi non ci fondiamo però con le cose, infatti a mano a mano che ci si avvicina alla cosa  cessiamo d’essere e a mano a mano che noi siamo non c’è cosa; coscienza della cosa e cosa non ci sono mai contemporaneamente, siamo quindi di fronte ad una coincidenza sempre parziale.

Merleau Ponty individua fra noi e il nucleo duro dell’Essere uno spessore di carne e quando parla di ritorno all’intuizione parla di un’intuizione vista come “palpazione in spessore”, come del resto il nostro sguardo è uno sguardo che “avvolge, palpa, sposa le cose visibili”. Questo sguardo che palpa, che riveste le cose della sua carne, penetra nel visibile e al contempo si lascia  penetrare da esso in una logica di contaminazione; fra il vedente e il visibile c’è un chiasmo, una relazione, simile a quella esistente fra il mare e la spiaggia. E come esiste uno sconfinamento e un sopravanzamento fra il vedente e il visibile, c’è anche fra il toccante e il toccato; il corpo, ed il corpo soltanto, può condurci alle cose, e la comunicazione fra il vedente e la cosa è resa attraverso lo spessore di carne esistente fra i due.

Colui che vede può possedere il visibile solo se ne è posseduto, se ne è, infatti Merleau Ponty  parla del nostro corpo come “essere a due fogli”: da una parte è cosa tra le cose, dall’altra, è ciò che le vede e le tocca, passa dunque dall’essere oggetto all’essere soggetto. Questo intimo e quasi narcisistico intreccio del visibile nel vedente, può portare a sentirsi guardati dalle cose, come hanno affermato molti pittori, o ad emigrare ed essere sedotti dal visibile fino a instaurare con esso un rapporto di tale reciprocità da non sapere più chi  vede e chi è visto.

Il mistero, l’enigma, di cui parla Magritte , può essere accostato all’ invisibile di Merleau Ponty.

Il vedere è strettamente collegato all’invisibile, si può dire che l’invisibile è il presupposto del vedere.

 Se io indico un oggetto  chi mi sta intorno riesce a vedere l’oggetto da me indicato, ma se pronuncio una frase nessuno riesce a vederla; da qui può emergere la domanda: Come faccio attraverso la parola, che è invisibile, a far accedere le persone che mi circondano al visibile? È come voler spiegare il mondo attraverso il bianco. La risposta a questa domanda è possibile solo se si considera l’invisibile strettamente legato al visibile , e solo se lo si considera essenza del vedere.

La percezione può essere infatti considerata anche come adombramento dal momento in cui sono sopra un tavolo non ne vedo il sotto, ma se col movimento riesco a percepire tutte le altre parti; l’oggetto infatti è presente come assente e lo pongo per profili. Allo stesso modo, se guardo un lato di una casa non riuscendo a vedere tutti gli altri, riesco comunque ad immaginarmeli perché me li suggerisce il lato che vedo. L’invisibile diviene così piega del visibile, il lato non visto del visibile.

Anche il mio movimento, portandolo sempre con me non lo vedo mai, ma come è invisibile a me il mio movimento così lo sono anche i significati ed i pensieri, e tutti questi “invisibili” devono essere integrati al visibile.

La carne è questo chiasmo fra vedente e visibile, in quanto le cose sono incrostate nella carne del corpo e corpo e cosa sono quindi fatti della stessa materia; Merleau Ponty tuttavia non approda all’ilozoismo: la carne del mondo è infatti sensibile  ma non senziente (sento le cose ma esse non sono senzienti), mentre la mia carne è sensibile e senziente.

 

 

Italo Calvino, all’interno di “Le meditazioni di Palomar”, sembra anch’egli voler riflettere sul “vedente-visibile” al pari di Merleau Ponty, ed è il caso di citare, in quanto particolarmente significative, le seguenti righe:”[…] basta aspettare che si verifichi una di quelle fortunate coincidenze in cui il mondo vuole guardare ed essere guardato nel medesimo istante e il Signor Palomar si trovi a passare lì in mezzo”.

Anche il Signor Palomar mette alla prova il suo vedere prendendo in analisi un’onda e cercando di coglierne  tutte le sue componenti simultanee senza trascurarne nessuna.

Prendendo a modello il disegno delle onde, la spiaggia inoltra nell’acqua delle punte appena accennate che si prolungano in banchi di sabbia sommersi, come le correnti ne formano e disfano a ogni marea”.

Palomar s’interroga su come si faccia a guardare qualcosa lasciando da parte l’io; si chiede di chi siano gli occhi che guardano, e ad un tratto, gli sembra quasi che a guardare il mondo sia l’io affacciato al davanzale di una finestra.

Ma se al di là della finestra c’è il mondo – si chiede Palomar – di qua cosa c’è? La risposta a questa domanda è la seguente: “dentro alla finestra c’è il mondo, che per l’occasione s’è sdoppiato in mondo che guarda e  mondo che è guardato. E lui, detto anche “io”, cioè il Signor Palomar? Non è anche lui un pezzo di mondo che sta guardando un altro pezzo di mondo? Oppure, dato che c’è mondo di qua e mondo di là della finestra, forse l’io non è altro che la finestra attraverso la quale il mondo guarda il mondo.

Palomar abbraccia quest’ultima ipotesi provando a guardare in modo tale che non sia  lui a guardare, ma il mondo di fuori che guarda fuori.

Interessante, nel suo rapporto col visibile, è anche il personaggio di Gurdulù all’interno del racconto “Il cavaliere inesistente” di Calvino.

Il Cavaliere inesistente, come dice Calvino stesso nell’introduzione a “I nostri antenati”, affronta il problema della perdita totale di sé, dell’“uomo artificiale” che essendo tutt’uno coi prodotti e con le situazioni, è inesistente perché non fa più attrito con nulla, non ha più rapporto con ciò che (natura o storia) gli sta intorno, ma solo astrattamente “funziona”.

Il Cavaliere inesistente è Agilulfo, un’armatura vuota che cammina, il quale, insieme a Gurdulù, rappresentano un’unica persona: Agilulfo è privo di un’identità fisica e Gurdulù è privo di individualità di coscienza e si identifica continuamente col mondo oggettivo.

Gurdulù sembra spesse volte non poter fare a meno di trasportare sé stesso nella cosa guardata, nell’oggetto, e di credere di essere ciò che guarda, infatti viene introdotto nel racconto mentre cammina accoccolato con le mani dietro la schiena, in mezzo a un gruppo di anatre, facendo il loro stesso verso.

“- E che faceva con le anatre?

“- Oh niente, ogni tanto gli piglia così, le vede, si sbaglia, crede d’esser lui…

“- Crede d’essere anatra anche lui?

“- Crede d’essere lui le anatre…Sapete com’è fatto Gurdulù: non sta attento…”

Ma Gurdulù nel racconto non è solo un’anatra, ma è anche: un pesce impigliato nella rete, un pero, un morto da seppellire, una farfalla…

Lo stesso Carlo Magno esclama: - “O bella! Questo suddito qui che c’è ma non sa d’esserci e quel mio paladino là  che sa d’esserci e invece non c’è. Fanno un bel paio, ve lo dico io!

Gurdulù è uno dei tanti nomi che persone diverse gli hanno attribuito proprio perché Gurdulù  non ha un’identità precisa ed i nomi “gli scorrono addosso senza mai riuscire ad appiccicarglisi”; è colui che nella relazione soggetto-oggetto non sa se è lui a dover mangiare la zuppa o la zuppa a doverlo mangiare, non sa se è il mare a dover stare dentro a lui o lui a dover stare nel mare.

Un altro tema presente nell’introduzione a “I nostri antenati” è quello relativo all’interpretazione; Calvino offre sì un percorso, una linea interpretativa dei suoi racconti, ma al contempo, esorta il lettore ad essere libero nel suo approccio ad essi: “[… siete padroni di interpretare come volete queste tre storie, e non dovete sentirvi vincolati affatto dalla deposizione che ora ho reso sulla loro genesi”.

 

 

Un pensatore che ha riflettuto sull’interpretazione e sulla crisi del linguaggio di cui ho parlato in merito a Magritte, è Foucault, all’interno di un articolo del 1964 scritto per un  convengo su Nietzsche.

Foucault scrive che dopo pensatori come Hegel e Kant, c’è stato un ritorno alla riflessione sul cogito, sui limiti, i fondamenti e le funzioni del pensiero.

Il cogito all’interno della filosofia contemporanea, anche quando si pone nella sua evidenza “chiara e distinta” non può condurre a una affermazione dell’essere perché si scopre piuttosto dominato dall’essere.

Foucault vede l’individuo “gettato” in uno stato interpretativo, quasi in balia di esso: “il soggetto del sapere si trova parlato e inscritto nel libro del mondo ben più di quanto non parli e scriva di esso”.

Foucault vede in Nietzsche il pensatore che riesce a guardare i valori partendo dall’“imperativo del sospetto”, che denuncia il carattere  discontinuo e violento della verità.

Nietzsche, Marx e Freud vengono definiti da Foucault “maestri del sospetto” proprio per aver operato una forte messa in discussione della coscienza, per aver denunciato la mancanza di un fondamento assoluto della verità e quindi la mancanza di criteri interpretativi.

L’interpretazione è considerata malevola proprio perché anche l’educazione che abbiamo, e che ci viene posta come verità assoluta, è un qualcosa di relativo. “Non è perché ci sono dei segni originari ed enigmatici che noi siamo consacrati al compito d’ interpretare, ma perché ci sono delle interpretazioni e perché non cessa di esserci, al di sotto di tutto ciò che parla, la grande trama delle interpretazioni violente”.

Non si tratta quindi di dire la verità, ma dire la propria verità sulle cose, di intervenire col proprio punto di vista, nel conflitto delle interpretazioni.

Foucault propone quindi un “ethos” della riflessione filosofica delineando la possibilità di una filosofia che si ponga al di fuori di ogni prospettiva fondazionale, pur non rinunciando a essere strumento di critica e di emancipazione.

 

Per ritornare alla riflessione sul legame soggetto-oggetto, interessante è l’analisi proposta da Marx relativa al soggetto-lavoratore e all’oggetto-prodotto del lavoratore all’interno dei Manoscritti economico-filosofici (1844), i quali contengono la teoria del lavoro alienato, la prospettiva di un superamento dialettico del capitalismo e la tesi di Marx relativa alla necessità storica dell’avvento del comunismo.

Marx  è uno dei fondatori della prospettiva relativistica delineata da Foucault, soprattutto per quanto riguarda la sua riflessione sulla formazione dell’individuo.

 I sensi, secondo Marx, sono il prodotto della società e della storia, per cui quando si parla di “senso estetico” o di “senso musicale”, ci si riferisce ad un sentire e ad un vedere che presuppongono la formazione sociale dell’individuo.

L’oggetto è tale in relazione al soggetto, ed estendendo ciò sul piano della vita dell’uomo potremmo dire che: l’amore presuppone l’esistenza di un mondo di affetti, la volontà l’esistenza di un mondo morale come oggetto…

Il soggetto non   è “anteriore” o “posteriore” all’oggetto, ma nasce con esso così come il senso musicale si forma in rapporto alla musica, e questa esiste come oggetto solo in quanto è “sentita” dal senso musicale; il soggetto si forma quindi nel rapporto con gli  oggetti.

La formazione dell’individuo diventa così relativa alla classe sociale in cui nasce e si sviluppa l’individuo.

Il lavoro in Marx è l’attività mediante la quale l’uomo proietta sé stesso nel mondo e si riconosce nell’oggetto: nel lavoro l’individuo può riconoscere sé stesso nel prodotto della sua attività e riconoscersi come essere sociale nella sua produzione comune.

Il mondo delle cose è prodotto dall’uomo, è quindi oggettivazione di un insieme di rapporti e di qualità umane. In esse è presente un sapere del mondo prodotto dalla storia dell’umanità; anche  osservando una città posso riscostruirne i rapporti umani  e le attività umane che ci sono alla sua base.

La svalorizzazione del mondo umano cresce in rapporto diretto con la valorizzazione del mondo delle cose. Nel lavoro alienato, l’oggetto che il lavoro produce, il prodotto del lavoro, si contrappone ad esso come un essere estraneo, come una potenza indipendente da colui che produce.

La reificazione della merce operata dal capitalismo porta l’operaio ad alienarsi nella merce prodotta.

Nel capitalismo, le cose, perdono la loro funzione umanizzante, per acquistarne una esclusivamente strutturale. Le cose servono, sono semplicemente mezzi di vita, così come sono spogliate dalle loro qualità e ridotte ad un  unico denominatore: il valore  monetario; viene così cancellato il rapporto fra soggetto-oggetto e le cose diventano proprietà.

Nella società capitalista più il lavoratore produce ricchezza e più si abbrutisce, tentando di realizzarsi da bruto; l’uomo si estranea dall’altro uomo e si corrompe anche il rapporto che questo ha con la natura.

 

Un’analisi socio-economica del lavoratore in relazione alla produzione nel sistema capitalistico è presente anche in “Gente che lavora” di Hobsbawm.

Egli prende in esame la figura del lavoratore aristocratico inglese, il quale, era il più delle volte un artigiano specializzato che aveva appreso il mestiere con l’apprendistato, e che si distingueva dal manovale, che non aveva professione.

La superiorità di questo stato rispetto agli altri lavoratori era di tipo economico, sociale, politico e culturale; i lavoratori aristocratici, o specializzati, controllavano rigidamente l’accesso al mestiere affinché nessun lavoratore non specializzato ne usurpasse “i ferri”.

Nella seconda metà dell’ottocento il tradeunionismo servì a preservare e perfino ad aumentare il divario retributivo tra operai aristocratici e plebei e funzionò come un meccanismo di esclusione a difesa di uno status superiore nell’ambito di una classe lavoratrice.

Il senso di indipendenza del lavoratore specializzato era fondato sull’idea che la sua abilità fosse indispensabile alla produzione, infatti è da qui che proviene l’obiezione del lavoratore specializzato al capitalismo, che non riguardava i padroni lavoratori che conoscevano da tempo i macchinari e che erano indispensabili per dirigere e sovrintendere il lavoro e per distribuirne il prodotto, ma il capitalista come mediatore improduttivo e parassitario. I piccoli padroni non erano un problema, e anche i fondamenti teorici del primitivo socialismo, che prevedevano l’eliminazione della concorrenza e del capitalista grazie alla produzione cooperativa dei lavoratori specializzati, erano d’accordo con ciò.

Come ho già detto il simbolo d’indipendenza del lavoratore specializzato erano gli attrezzi personali che gli garantivano la superiorità della direzione.

La crisi dei lavoratori specializzati iniziò con l’arrivo degli addetti alle macchine semispecializzati di fine ottocento, e i mestieri si trovarono minacciati per la prima volta dal capitalismo industriale nel ventennio 1830-50.

Il passaggio dei lavoratori specializzati all’anticapitalismo fu una semplice estensione della loro esperienza professionale, significò per loro fare ciò che avevano sempre fatto: difendere i loro diritti, i loro salari…: “se i padroni non riconoscevano più gli interessi dei lavoratori specializzati, perché questi dovevano riconoscere gli interessi dei padroni?

Molti dei lavoratori specializzati costruirono il primo nucleo di rinnovato movimento dei delegati di fabbrica; molti di essi diventarono comunisti e da qui iniziò la propria liquidazione come strato “speciale” della classe operaia.

L’industria, non più fondata sull’abilità tecnica degli specializzati, determinò la trasformazione di questi in una semplice categoria di lavoratori come tanti altri: il lavoro ben fatto non era più il fondamento dei buoni guadagni e secondo la logica capitalista occorreva più prodotto anche se fatto in modo approssimativo.

“I lavoratori specializzati non si riproducono più fra di loro. La generazione degli uomini cresciuti negli anni trenta e quaranta con l’esperienza e i valori della specializzazione sopravvive, ma sta invecchiando. Quando gli ultimi macchinisti che hanno guidato e accudito le locomotive si ritireranno, non ci vorrà molto tempo, e quando i macchinisti saranno poco diversi dai manovratori dei tram e qualche volta del tutto superflui, che cosa accadrà? Come sarà la nostra società senza quel vasto gruppo di uomini che, in un modo o nell’altro, avevano il senso della dignità e dell’amor proprio connesso al lavoro manuale difficile, ben fatto e socialmente utile, che è anche il senso di una società non governata dai prezzi di mercato e dal denaro, ma una società diversa dalla nostra e potenzialmente migliore? Come sarà una nazione priva di quella possibilità di pervenire al rispetto di se stessi che l’abilità delle mani, degli occhi e del cervello offre agli uomini?”.

Forse molti dei lavoratori di oggi, al pari del lavoratore specializzato di Hobsbawm, sono stati ridotti ad essere piccoli ingranaggi della macchina del capitale; forse sono in tanti, oggi, a sentirsi tagliati in due per lungo, come fossero costituiti da due parti ognuna delle quali va per conto suo.

Non so come sarà vivere in un mondo che ti costringe, senza quasi che tu te ne accorga, a divenire un “Visconte dimezzato”.

Calvino parla dell’uomo contemporaneo come di un uomo mutilato, incompleto, nemico a sé stesso, paragonabile all’uomo “alienato” di Marx, consapevole della perdita del mondo di uno stato di antica armonia, desideroso di una nuova completezza.

 

 

                                                                                            Lilith  Moscon

 

III sez. C Liceo Machiavelli